Articolo realizzato da Ugo Merlo
per gentile concessione della Confraternita della Vite e del Vino di Trento
Da qualche tempo alcune cantine hanno scelto di usare i tappi a vite al posto di quelli di sughero. Un passaggio non semplice e non banale, sul quale riflettiamo con Mario Pojer, storico e vulcanico vignaiolo di Faedo, dell’omonima azienda Pojer e Sandri, che il prossimo anno festeggerà il mezzo secolo.
La sua cantina, nel bel mezzo dei giardini vitati della collina sopra San Michele all’Adige fa parte del gruppo di 5 aziende che hanno fatto la scelta di usare tappi a vite e che si sono denominati in modo goliardico: gli svitati. Il nome sembra una provocazione, ma dietro ci sono enologi di esperienza, anni di studi, prove e comparazioni.
Di fatto c’è un lavoro scientifico il cui obiettivo è preservare nel miglior modo possibile il vino.
Abbiamo incontrato Mario per farci raccontare questa sua interessante esperienza.
Mario chi sono questi svitati?
«Sono 5 le persone del gruppo Walter Massa piemontese di Monleale (AL) un pioniere del Timorasso, un bianco tipico dei colli torinesi; Graziano Pra, Veneto di Monte d’Alpone in provincia di Verona; c›è poi l›azienda di Franz Hass, purtroppo mancato prematuramente, di Egna in Alto Adige; Silvio Jermann friulano, il più rappresentativo dei vignaioli friulani con la cantina a Villanova a Fara d›Isonzo in provincia di Gorizia e noi di Pojer e Sandri di Faedo. Ti faccio notare un dato: siamo tutti enologi degli anni 50».
Come nascono gli svitati?
«Nel 2022 eravamo a una festa a Parma con una degustazione e si faceva un karaoke. Cantavamo il brano di Vasco Rossi che recita: «svitiamo piano». Da qui complice la musica del mitico Vasco Rossi, abbiamo dato origine al nostro gruppo».
Al di là della festa dietro una scelta c’è tanta storia?
«Si alle nostre spalle c’è una grande esperienza di chi ha vissuto per oltre mezzo secolo nel mondo del vino con il tappo di sughero e ha ragionato non di pancia, ma di testa unendo l’esperienza e la scienza per passare al tappo a vite, con lo scopo di dare una vita più lunga al vino. La nostra tradizione è figlia di innovazioni ben riuscite».
Entriamo nel merito del tappo a vite?
«In Italia parlare di tappo a vite è senza dubbio andare ad infrangere un tabù: quello del rito, sia chiaro piace anche a me, di aprire la bottiglia di vino con il tappo di sughero. Ma il sughero, che è un prodotto naturale, presenta dei problemi.
Il tappo di sughero può rovinare il vino non solo con il classico sapore di tappo, ma da esso entra il nemico del vino: l’ossigeno che lo fa morire. Attraverso il sughero passa aria e quindi ossigeno in quantità non misurabili. Infatti, a seconda della struttura del sughero, l’ossigeno che entra può essere: poco, tanto o niente. Il sughero poi può essere inquinato da muffe. Poi c’è la cessione al vino dei prodotti usati per bonificare il tappo, sterilizzarlo e la cosmesi o lubrificazione del tappo stesso. Bisognava fare qualche cosa per ridurre l’ossigeno per posticipare la morte del vino, o se vogliamo, allungargli la vita. Un modo per dare al vino una vita più lunga è l’uso del tappo a vite. Addirittura il tappo a vite ci permette una permeabilità calcolata. In commercio ci sono disponibili 4 membrane e si possono scegliere tarando così il passaggio dell’ossigeno nella bottiglia. Dal punto di vista scientifico e tecnicamente è la migliore chiusura».
Non è stata un’improvvisazione?
«Sono 15 anni che qui in cantina da noi a Faedo, facciamo delle prove degli studi ed esperimenti. Nel 2007 avevo fatto delle prove comparative, abbiamo assaggiato e valutato. In seguito di queste prove abbiamo convinto la rete commerciale a intraprendere questa strada con dei risultati incredibili».
Quando Pojer e Sandri ha fatto questa scelta?
«Con la vendemmia 2020 noi abbiamo investito 300 mila € con la nuova riempitrice e tappatrice che ci permette di fare 5 chiusure diverse. Non solo vite, ma corona, sughero, bidulle per metodo classico e tappo a vetro per i distillati ed alcuni vini particolari».
Come il mercato ha reagito alla “novità” del tappo a vite?
«Il mercato in questo periodo è molto più maturo. Su questo tema noi abbiamo fatto dei convegni scientifici in cui è intervenuta anche per la Fondazione Edmund Mach con il professor Fulvio Mattivi, dove si dimostra la bontà di questa scelta. Ricordo due eventi uno a Vicenza e uno a Bergamo al quale hanno partecipato oltre 100 persone, in ogni sessione. In due anni abbiamo avuto oltre 250 articoli sui giornali e riviste specializzate dove si è parlato del tappo a vite».
Il futuro?
«Tutta la linea dei nostri vini classici una linea monogramma è con il tappo a vite per dare una idea al consumatore di qualità. C’è da rompere un vecchio il tabù, quello che vedeva tappate a vite le bottiglie del vino a buon prezzo. Una scelta, ribadisco che per noi è di tipo scientifico».
Parliamo dei vantaggi?
«Con il tappo a vite si ha la purezza del gusto del vino. Noi lavoriamo un anno in campagna, poi rischiamo, a causa delle variabili dell’ossigeno, il Tca, le cessioni da trattamenti esogeni del sughero, di rovinare un lavoro di un intero anno. Inoltre, possiamo usare meno anidride solforosa, riducendo l’ossigeno nel vino. Con il tappo a vite riusciamo a ridurre fino al 30 % la solforosa nel vino. Anche lo stoccaggio è più facile, la bottiglia può stare in piedi e la conservazione della stessa può anche avere deroghe sulla temperatura dell’ambiente dove il vino riposa, non in maniera eccessiva, ma un po› possiamo derogare.
Un altro vantaggio sta nella praticità: la bottiglia la si ritappa e dura, con una chiusura stagna, a lungo. Il tappo a vite è poi sostenibile, il 75% è riciclato e sarà di nuovo riciclato. Uso una definizione di Walter Massa, che fa un paragone con la mobilità: Il tappo a vite è l’automobile, il sughero è il cavallo».
Com’è la situazione in Italia sul tappo a vite?
«La situazione in Italia, ad oggi che circa il 20% delle bottiglie sono tappate a vite, ma segnalo che questo dato è in crescita».
E nel resto del mondo vinicolo?
«Il 40% del vino sulla terra è tappato a vite. In Australia e Nuova Zelanda siamo al 90%. In questo momento la Germania va verso questa chiusura. In Spagna, Francia e Italia abbiamo i maggiori tabù perché dura la tradizione. Sullo spumante rimane il sughero, anche se la tecnologia penso arriverà anche su quelle bottiglie».
Sei un sognatore e non ti fermi mai cerchi sempre di innovare?
«Ho anche un’altra idea, o meglio un sogno e sarebbe quella di imbottigliare il vino e fondere il vetro e far diventare la bottiglia come una fiala, come quelle delle medicine: una sigillatura.
Zero, ribadisco, zero ossigeno nel vino. Pensavo fosse un mio sogno, ma è già realtà e sono rimasto un po’ deluso quando l’ho scoperto, perché lo hanno già fatto. Il vino è l’Ampoule dell’azienda australiana Penfolds che ha sigillato il vino in una ampolla. Per la cronaca la bottiglia costa circa 150 mila dollari e ti viene portata a casa da un addetto della cantina che te la apre. Forse un giorno arriveremo ad usare la tecnologia delle case farmaceutiche per le fiale dei medicinali, anche per le sigillature del vino. Il vino sigillato è un mio sogno e avremo un vino eterno. Io per ora mi limito, in modo spettacolare, ad aprire le bottiglie «vecchie» con i tappi degradati e quindi difficili da muovere con il cavatappi, usando una tecnica messa a punto in Portogallo. Si usa una pinza riscaldata sulle braci, con la quale viene abbracciato e riscaldato il collo della bottiglia, poi poso sul collo una piuma ghiacciata.
Si crea una differenza di temperatura per cui il vetro si rompe nel punto del collo riscaldato e apro la bottiglia vecchia senza avere problemi con il tappo. I video sono visibili sui vari siti e su YouTube».