Articolo a cura di Morello Pecchioli
Tempo di vendemmia, tempo di dolce mosto nuovo, tempo di mostaccioli (o mostazzoli), i tradizionali dolcetti rivendicati da molte regioni italiane come tipici propri. I mostaccioli odierni sono i discendenti di antichissime e povere ricette contadine che nella stagione della raccolta dell’uva si impastavano con il mosto nuovo e la farina. Tagliamo subito i fili con il millenario passato: i mostaccioli odierni non sono più quelli di quando Berta filava. Oggi, impreziositi di cioccolata, canditi, uvetta passa, mandorle, miele e dolcezze varie, sono i pronipoti ricchi del mustaceum romano. Ma del mosto dal quale prendono il nome, se ce n’è, ce n’è appena una goccia.
La ricetta più antica del mustaceum ce la tramanda Catone nel De Agricoltura. Il Censore suggerisce: «Inzuppa un moggio di farina con il mosto, aggiungi anice, cumino, due libbre di grasso, una libbra di cacio e corteccia di alloro. Impasta ben bene e dagli la giusta forma, dopo di che cuoci sulle foglie di alloro». Gneo Nevio, poeta e drammaturgo romano del terzo secolo avanti Cristo, aveva un metro tutto suo per misurare l’illibatezza, e cioè il bene più prezioso, delle ragazze da marito. Nevio paragonava la verginità al vino nuovo. Leggiamo in un suo passo teatrale: «Virgo, si mustea est». Virgo non ha bisogno di traduzione, mustea è l’aggettivo che deriva da mustum, il mosto. Tradotta con un po’ di libertà l’espressione di Nevio dice «La vergine è dolce e preziosa come il nuovo mosto». A quei tempi la condizione virginale nelle fanciulle era un assioma, oggi un accessorio. La buonanima del nostro professore di latino ci perdonerà se ci siamo presi un po’ di libertà e aggiunto qualche attributo, ma, in fondo, il nostro è un omaggio, oltre che a Nevio, a Catone, Virgilio, Plinio, Ovidio, Giovenale, Apicio – scrittori che lodarono tutti il mosto e i suoi derivati – a lui stesso e a tutta la letteratura latina che tanto bene ci insegnò.
C’è, comunque, una correlazione tra la virgo mustea e il matrimonio: quando due giovani Romani convolavano a nozze nel banchetto non mancava mai il mustaceum, focaccia preparata con farina impastata col mosto nuovo cui venivano aggiunti altri ingredienti. Una volta amalgamato il tutto, la schiacciata veniva cotta su foglie d’alloro. La ricetta catoniana è riportata dalla storica Ilaria Gozzini Giacosa nel libro A cena da Lucullo. L’autrice sottolinea come il nome di questi dolci sia sopravvissuto in diversi tipi di biscotti che ancora oggi si fanno in molte regioni d’Italia: i mustazzìt lombardi, i mostaccioli calabri, la mustazzola siciliana, gli mustazzueli pugliesi. «Ma», conclude con un punto esclamativo che è una sentenza di condanna per vilipendio alla tradizione, «in tutti questi dolci il mosto, l’ingrediente cioè che ha dato loro il nome è, attraverso i secoli, scomparso. Nessuno di questi biscotti prevede per la sua preparazione l’utilizzo di mosto!».
Tra tutte le regioni che rivendicano la paternità dei mostaccioli, è la Campania a pretenderne la maternità: mater semper certa. Per i partenopei, i loro mustacciuoli o mustacciule, sono i tipici che più tipici non si può. Hanno una forma a rombo e sono coperti di una glassa di cioccolato mentre l’impasto interno, speziato, è a base di miele e frutta candita. Sono dolci buoni in ogni stagione, ma guai a farli mancare nel periodo più dolce dell’anno, il Natale, quando si mangiano in famiglia insieme agli struffoli e ai susamielli.
In terra d’Otranto c’è una venerazione per questi antichi dolcetti che- paese salentino che vai nome che trovi- vengono chiamati mustazzoli, mustazzueli ‘nnasprati, bisquetti, pisquetti, scaiezzuli, zozzi, castagnette e altro ancora. Anche la Calabria è prodiga di nomi: mastazzolu, nzudda, nnzuddha… Nella carta d’identità del mostacciolo calabrese c’è perfino il luogo di nascita: Sogliano Calabro. Ad Avigliano, in Basilicata, sono un prodotto da forno che somiglia al tarallo, quindi friabile. Il nome? Mstazzuol. I mostazzoli di Calabria, Sicilia (dov’erano un tempo confezionati dalle monache nelle cucine conventuali) e Puglia sono inseriti nel prestigioso elenco dei Pat, i Prodotti agroalimentari tradizionali. Anche la Sardegna ha i suoi gustosi mostaccioli: molto buoni quelli di Oristano che si presentano con una glassa bianca e una speziatura di cannella. Altrettanto speciali i mustazzuleddus de Mendula, fatti con la mandorla e decorati con sa cappa, glassa bianca percorsa da un’onda di cioccolato nero. Nel Veneto sta scomparendo un dolce legato alla vendemmia che non è un mostacciolo vero e proprio, ma una specie di budino che però rispetta ancora gli ingrendienti tramandati dalla civiltà contadina, uva, mosto e farina. Il nome è al plurale: sùgoli o sugoi.
Siamo partiti da Roma, la città dove il mustaceum è nato più di due mila anni fa, a Roma torniamo. Abbiamo lasciato per ultimi i mostaccioli dell’Urbe perché, come dice il Vangelo, gli ultimi saranno i primi: i mostaccioli romani, infatti, profumano di santità, di paradiso. Non perché Roma è il centro della cristianità o perché i dolcetti col mosto erano in bella vista nella carta dei dessert di due papi del ‘500, Pio IV e Pio V, con ricette preparate dal celeberrimo Bartolomeo Scappi, il Cannavacciuolo dei pontefici rinascimentali, ma perché i mostaccioli furono l’ascetico dolcetto che tanto piacque a San Francesco nel suo primo viaggio a Roma. Quando il Poverello d’Assisi si recò nel 1210 nella città di San Pietro per presentarsi al papa con tutti i suoi fraticelli fu aiutato da Jacopa Frangipane de’ Settesoli, una ricca nobildonna vedova che, convertita dalle parole di Francesco, ne divenne una seguace fedele. Tra un salmo un’esortazione e una laude al Creatore, Francesco ebbe modo di assaggiare, grazie a Jacopa, alcuni biscotti tipici dell’Urbe che definì «boni e profumosi»: i mostaccioli. Erano dolcetti tipici del periodo della vendemmia, fatti con molta semplicità e con ingredienti di stagione: pasta di pane, miele, mandorle e mosto d’uva dolce dal quale prendevano il nome. I dolcetti piacquero talmente al santo frate che, sentendo prossima la morte, dettò a un frate questa missiva per la nobildonna romana: “A donna Jacopa, serva dell’Altissimo, frate Francesco, poverello di Cristo, augura salute nel Signore e comunione nello Spirito Santo. Sappi, carissima, che il Signore benedetto mi ha fatto la grazia di rivelarmi che è ormai prossima la fine della mia vita. Perciò, se vuoi trovarmi ancora vivo, appena ricevuta questa lettera, affrettati a venire a Santa Maria degli Angeli. Poiché se giungerai più tardi di sabato, non mi potrai vedere vivo. E porta con te un panno di colore cenerino per avvolgere il mio corpo e i ceri per la sepoltura. Ti prego anche di portarmi quei dolci, che tu eri solita darmi quando mi trovavo malato a Roma”.
A quanto riferiscono le cronache non si fece nemmeno in tempo a spedire la lettera che Frate Jacopa, così era chiamata la donna nella comunità francescana, era già ad Assisi avvisata in Spirito dell’imminente morte del santo. E portava con sé quanto le aveva chiesto Francesco: il panno cenerino, i ceri per la sepoltura e “quei dolci boni e profumosi” che Francesco le aveva chiesto di portare. Jacopa fu l’unica donna che assistette al passaggio dalla vita alla morte del Poverello d’Assisi. Successivamente visse ad Assisi, come terziaria francescana. Quando morì fu sepolta nella Basilica inferiore. Oggi le sue spoglie riposano proprio di fronte alla tomba di Francesco, il frate che apprezzò talmente i suoi dolci da chiedere di assaggiarli anche in punto di morte. Da allora i mostaccioli, a Roma e nelle regioni vicine, sono chiamati i mostaccioli di San Francesco.