Articolo realizzato dal dott. Paolo Milani
Giornalista con dottorato di ricerca in filologia classica
Per gentile concessione della Confraternita della Vite e del Vino di Trento
Il mondo romano ha lasciato un’impronta indelebile nella storia del vino, tanto che le sue conoscenze in campo enologico non hanno smesso di far sentire la propria eco fino ai giorni nostri. Nell’antica Roma il vino occupava una posizione importante, non solo come alimento, ma anche come status symbol, come parte integrante delle cerimonie religiose, come strumento per creare e rafforzare i legami sociali, come bene economico. L’arte e la letteratura abbondano di riferimenti al vino, a testimonianza della sua rilevanza nella vita quotidiana. In una società agricola come quella romana la coltivazione della vite e la vinificazione erano attività in grado di incidere profondamente sugli equilibri socio-economici del tempo. Regioni viticole come la Campania, la Grecia, la Spagna e l’Africa producevano varietà di vino apprezzate ovunque che grazie ai fiorenti traffici approdavano sulle mense dei ceti abbienti in ogni parte dell’Impero.
In questo viaggio alla scoperta della vite e del vino nel mondo romano – ed in particolare in quello del primo secolo d. C. – ci avvarremo di guida d’eccezione, uno dei massimi eruditi romani, Plinio il Vecchio. Plinio nasce a Como nel 23 d.C. e muore durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. che ha sepolto Pompei, mentre a capo della flotta romana prestava soccorso alle popolazioni. Il suo capolavoro, la Naturalis Historia, è una vasta enciclopedia, che tratta dell’intero scibile umano: dall’astronomia alla botanica, dalla medicina all’arte passando per zoologia, antropologia, mineralogia, metallurgia. Uno dei trentasette libri che la compongono, il quattordicesimo, si occupa specificamente di vite e di vino.
Agli occhi di un lettore moderno la sua trattazione ha ben poco ha da invidiare ad una delle tante guide enologiche che possiamo trovare nelle nostre librerie. Plinio descrive e cataloga decine di varietà di vite, analizza le caratteristiche dei diversi terreni e climi, recensisce bottiglie italiane e straniere, offre consigli ai consumatori in termini di tipicità e di proprietà nutrizionali o salutistiche.
In questa sede, per ragioni di spazio, non potremmo che dare dei semplici cenni di questa approfondita disamina, rimandando i più curiosi alla consultazione diretta del testo.
Fin dalle prime righe l’Autore ci sorprende per l’acutezza delle sue osservazioni su un tema ancor oggi fondamentale in campo enologico: il legame fra vite e terroir: «Democrito, che dichiarava di conoscere tutte le specie greche, fu il solo a sostenere che si potessero contare le varietà della vite. Tutti gli altri ci hanno tramandato che sono innumerevoli ed infinite (…). Né si potranno citare tutte, ma solo le più celebri, perché ne esistono quasi tante quanti sono i terreni (…). È inutile volere enumerare tutte le specie poiché una stessa vite dà risultati diversi a seconda dei luoghi». E aggiunge: «(le viti) non possono essere trasferite in alcun luogo senza che la loro qualità venga intaccata». Lo stesso vale per le tecniche di allevamento: «Tutta la potenza di crescita viene incanalata verso i tralci o fatta sfociare nelle propaggini, ed è solo per il succo che la si fa crescere in modi diversi a seconda del regime climatico e della natura del suolo». Ogni tipo di coltivazione comporta anche consuetudini locali diverse: «Nell’agro campano la si marita al pioppo: avvinghiate alle piante coniugi, (…) raggiungono la sommità ad una tale altezza che il contratto di chi viene ingaggiato per la vendemmia prevede il risarcimento delle spese per il funerale».
Quando poi si passa al tema varietale, scopriamo i nomi e le caratteristiche delle tipologie allora più in voga: «Il primo posto è assegnato alle viti aminnee, per la robustezza del loro vino che prende corpo sempre di più con l’invecchiamento”.
«Il secondo posto va alle nomentane che, per il legno rossastro, sono state da taluni chiamate viti rossicce (…) sono resistentissime alle gelate e soffrono di più la siccità che la pioggia, più il caldo che il freddo; per questo motivo eccellono nelle zone fredde ed umide».
Infine ci sono le viti “apiane” così dette perché producevano un’uva dolce di cui le api erano ghiottissime. Ampiamente diffuse in Etruria, non disdegnavano i climi freddi.
Oggi chiameremmo queste tipologie “autoctone”. Poi ce n’erano una quantità innumerevole di importate, provenienti dalle isole greche, dall’Epiro o dalla Spagna, a testimonianza di come il Mediterraneo dell’epoca fosse un crocevia brulicante di scambi commerciali.
Al capitolo delle viti segue quello dei vini. Ed è qui che Plinio mostra tutta la sua competenza. Sommelier ante litteram, riesce a trasmettere la passione per il vino, ma anche la voglia di raccontarlo.
Comincia da quelli greci, ambitissimi nel mondo antico, molti dei quali si facevano risalire addirittura ad Omero. Erano così ricercati che i loro prezzi erano altissimi.
«In verità – ci racconta – il vino greco era così apprezzato che nel corso di un banchetto lo si serviva solo una volta».
Fama e provenienza decretavano il successo di un vino, ma – come succede oggi – anche l’annata era in grado di fare la differenza. «Ne restò celebre una per la bontà di tutte le specie: fu l’anno del consolato di Lucio Opimio, quando il tribuno Caio Gracco, attizzando le sedizioni della plebe, fu assassinato. Tale fu la temperatura mantenuta da un sole splendente nell’anno 633 dalla fondazione di Roma (121 a.C.), che si conservano tuttora vini di quell’anno vecchi di quasi duecento anni, ormai trasformatisi in una sorta di miele amaro. È proprio questa, infatti, la caratteristica dei vini invecchiati: che non si possono bere puri o stemperati in acqua, perché l’incorreggibile rancidezza conferisce loro un sapore amaro; ma, mischiati in piccolissima quantità, si usano per tagliare gli altri vini che si vogliono valorizzare».
Come ogni guida che si rispetti, anche la Naturalis Historia procede ad una classificazione dei vini e lo fa, proprio come noi, sulla base del colore: «I vini hanno quattro colori: bianco, giallo, rosso sangue, nero».
E aggiunge: «più un vino è leggero, più ha profumo». Un posto particolare spetta poi ai passiti, particolarmente graditi dai Romani. Plinio ne descrive le tecniche di preparazione: «In Italia si produce un vino dall’uva che i Greci chiamano psitia, noi apiana, (…) lasciando lungamente seccare al sole i grappoli sulla pianta o immergendoli nell’olio bollente. Alcuni lo ottengono da qualsiasi tipo d’uva dolce, purché molto matura e bianca, facendola seccare al sole fino a che rimanga un po’ più della metà del suo peso, quindi la schiacciano e la spremono leggermente (…) Se si vuole procedere con più accuratezza, dai grappoli fatti seccare nel modo suddetto si staccano gli acini, che vengono immersi senza graffi in vino di ottima qualità, finché non si gonfiano, e quindi pressati. Il passito ottenuto con questo procedimento è considerato il migliore (…)». Ed ecco anche il progenitore del torcolato: «Ne esiste tuttora una qualità ottenuta nella provincia Narbonese e particolarmente nella regione abitata dai Voconzi che prende il nome di vino dolce: per ottenerlo si lascia l’uva sulla vite più a lungo del consueto, dopo aver torto il picciolo». E poi non poteva mancare una tecnica molto familiare a noi trentini, anche se basata su tempi molto più stretti dei nostri: «A queste varietà alcuni aggiungono il cosiddetto diáchyton (letteralmente “sparso” “spargolo”), ottenuto da uve messe a seccare al sole in luoghi riparati per sette giorni su graticci posti a sette piedi da terra protette dall’umidità notturna e sottoposte a pigiatura all’ottavo giorno. In questo modo si ottiene un passito di profumo e sapore senza dubbio eccellenti».
Ma è quando si passa alle “etichette” che le pagine di Plinio svelano un mondo sofisticato e dai gusti complessi.
“I tre bicchieri” – diremmo noi oggi – vanno al Cecubo: «In antico grandissima rinomanza per la sua qualità aveva il Cecubo, proveniente dai pioppeti palustri nel Golfo di Amincle. È ormai scomparso per l’incuria dei produttori e la ristrettezza del podere, ma forse più ancora a causa del canale navigabile che dal Lago di Baia arriva fino ad Ostia, fatto apprestare da Nerone». Altro vino rinomatissimo – e dai prezzi proibitivi – era il Falerno. Cru del Falerno era il Faustiniano. E come accade per le nostre DOC, la produzione anche allora era regolamentata e limitata ad alcuni determinati poderi dai confini precisi: «Il territorio del Falerno comincia dal ponte Campano sulla sinistra in direzione di Urbana, Colonia fondata da Silla e recentemente annessa a Capua. Il podere Faustiniano si trova a circa quattro miglia da Cedicio, villaggio a 6 miglia da Sinuessa. Nessun vino oggi ha maggior prestigio (…). Ne esistono tre varietà: forte, dolce e leggero. Alcuni distinguono così: sulla sommità delle colline si produce il Caucino, a mezza costa il Faustiniano, in basso il Falerno». E come oggi anche allora non mancavano polemiche sulle scelte viticole, che, guarda caso, erano le stesse che riecheggiano oggi: «Il Faustiniano è in fase di regressione da quando è in mano a gente che bada più alla quantità che alla qualità».
Tra gli altri vini italici le pagine di Plinio annoverano quelli albani, antenati dei vini dei Castelli, dolci e raramente forti. L’Albano invecchiato di nove anni era anche il vino che il poeta Orazio offriva alle sue conquiste amorose.
Poi c’erano i vini di Sorrento, sulla cui qualità non v’era unanimità: l’imperatore Tiberio sosteneva addirittura che «i medici si erano messi d’accordo per conferire celebrità al vino di Sorrento che di per sé era solo un aceto di qualità», e Caligola lo definiva «uno svanito illustre».
Seguono i vini mamertini, quelli di Messina, amatissimi da Cesare che li offrì per il banchetto in occasione del terzo consolato. Ma attenzione alle frodi, perché – ci dice il Nostro – circolava molto vino di Taormina spacciato per Mamertino!
Fra i vini della penisola Plinio cita anche i vini di Luni e quello di Bolsena, il vino retico nel Veronese e quelli di Cesena, quelli Pugliesi e quelli calabresi. Sconsigliati invece i vini di Pompei, che «provocano mal di testa fino a mezzogiorno dell’indomani» e raggiungono il massimo della qualità dopo 10 anni di invecchiamento.
Un posto a parte è riservato ai prodotti di importazione. I vini greci erano i più pregiati e poi quelli egiziani (da Tripoli e da Petra) descritti con attenzione alle particolarità organolettiche, ma anche alle tecniche di produzione: gli abitanti di Cos, ad esempio, aggiungevano durante la vinificazione acqua marina in notevole quantità, il che dava al vino un gusto salato. Un altro procedimento particolare, chiamato talassite, prevedeva l’invecchiamento del mosto in vasi calati nel mare, pratica tornata in voga anche ai nostri tempi.
Incredibile a dirsi, all’epoca i vini francesi non godevano di nessuna fortuna. Quelli di Marsiglia era considerati vini da taglio e gli altri erano poca cosa o avevano fama di essere adulterati: «La rinomanza dei vini di Béziers rimane entro i confini delle Gallie. Sugli altri vini della Narbonense (ovvero la regione dell’odierna Montpellier, Avignone, Narbona, Marsiglia, Carcassonne, Tolosa) non si può dire nulla, poiché è stata allestita una fabbrica per colorarli affumicandoli e volesse il cielo non anche con erbe ed ingredienti nocivi! Infatti i commercianti usano perfino l’aloe per alterarne il gusto e il colore».
Sorte migliore toccava invece alla produzione spagnola: Plinio apprezza in particolare i vini «di Tarragona e di Lauro, con quelli delle Isole Baleari, che rivaleggiano con gli italiani».
E per finire la nostra guida ante litteram ci descrive alcune tecniche di conservazione: «I metodi per conservare il vino (…) differiscono grandemente a seconda del clima. Nelle regioni alpine lo si racchiude in recipienti di legno rinforzati con cerchiature e, persino nel pieno dell’inverno, lo si preserva dal gelo accendendo dei fuochi (…) Nelle regioni più temperate lo si racchiude in otri che vengono messi sotto terra interamente, ovvero parzialmente, a seconda della geografia del luogo. Con questo metodo si protegge dalle intemperie. Altrove lo si protegge costruendo come riparo delle tettoie e si tramandano anche questi precetti: un lato della cantina, o almeno le finestre, bisogna che siano esposte all’aquilone, ovvero in ogni caso verso il nord-est. I letamai e le radici degli alberi devono essere distanti, come ogni cosa di cui bisogna evitare l’odore, poiché passa al vino con gran facilità (…) È bene anche distanziare gli otri, affinché le malattie non si diffondano dall’uno all’altro, essendo il contagio nel vino sempre molto rapido».
Che dire? Competenza tecnica, conoscenza storica, sensibilità del palato, chiarezza di scrittura: tutto quello che sarebbe richiesto a un giornalista enogastronomico sta nelle pagine di Plinio. Anche una certa attenzione agli affari e al mercato: «Tanto denaro rendono le cantine! Nessun’altra merce acquista più valore nel giro di vent’anni”.
Sulle occasioni di consumo invece nulla si dice. D’altra parte, anche oggi nessuna guida enologica si sognerebbe di dirci quando è il caso di bere. È qualcosa che appartiene all’esperienza collettiva. Per cui non mette conto dirlo. Ma da molte altre fonti – che qui per ragioni di spazio non approfondiremo –emerge come per i romani del primo secolo ogni momento fosse buono per brindare, dentro e fuori casa: feste religiose, incontri d’affari, momenti di svago, banchetti. Un po’ come al giorno d’oggi e – verrebbe da dire – con la stessa leggerezza. Mancano a Roma l’etica profonda e le ferree regole che informavano il consumo dei Greci. I Romani non conoscono la netta separazione del simposio greco fra cibo e vino. Questa assenza non è solo un fatto esteriore, ma implica il venir meno dell’intero apparato di norme e di concetti che caratterizzavano il rapporto degli ellenici col vino. A Roma, nei momenti conviviali, il vino non è il protagonista, a differenza di quanto capitava ad Atene, ma una comparsa fra le tante. Non c’è più lui al centro della sala con il cratere da cui si attinge sotto la vigile guida del simposiarca. C’è invece una tavola ricca di ogni genere di leccornie, che a tratti lascia spazio anche a spettacoli di intrattenimento, declamazioni poetiche, balletti, performance musicali, esibizioni di acrobati, siparietti di nani e buffoni. Il vino – anche Roma mescolato con acqua – è uno dei tanti attori della scena. Persa ogni connotazione religiosa o ideologica, gli resta quella organolettica e sociale: più è buono e costoso, più concorre a sottolineare lo status del padrone di casa.
Ma c’è un’altra questione che distingue il mondo greco da quello romano in fatto di vino. Ed è quella femminile. A differenza dei Greci, i Romani ammettevano al convivio le mogli. Non le etere come in Grecia, ma le matrone. Ad una precisa condizione, però: non potevano bere vino.
Il consumo del vino da parte delle donne era cosa a tal punto inconcepibile da essere vietata per legge. Fu una norma attribuita al primo re di Roma, Romolo, a sancire la pena di morte per la donna sorpresa a bere vino. Plinio ci racconta che ai tempi di Romolo visse un tale Ignazio Mecennio che salì agli onori della cronaca, e poi della storia, per aver ucciso la moglie colpevole di aver bevuto vino. Il comportamento di Ignazio non destò alcun scalpore, né venne fatto oggetto di condanna. Anzi, si diceva che lo stesso Romolo lo avesse assolto dall’accusa di assassinio, rispettando lo spirito della legge di cui lui stesso era stato autore.
Sempre Plinio ci dice di una matrona che fu costretta dai parenti a morire di inedia, perché aveva aperto la cassetta nella quale erano riposte le chiavi della cantina, dove era custodito il vino.
Ad una donna malata alla quale il medico aveva prescritto il nettare di Bacco come medicina, andò meglio. Ma – ci dice il Nostro – fu comunque giudicata colpevole di averne bevuto più di quanto non richiedessero le sue precarie condizioni di salute, e per di più all’insaputa del marito. La poveretta ebbe salva la vita, ma ci rimise il matrimonio e tutta quanta la dote.
A Roma questa ossessione per il consumo femminile di vino era tale che si escogitò un modo molto particolare per tenerne sotto controllo la sobrietà. Si tratta del celebre ius osculi, il diritto di bacio. In pratica i parenti fino al sesto grado – dunque fino ai figli dei cugini – avevano diritto di baciare sulla bocca le donne della famiglia per verificare se il loro alito emanasse odore di vino. Colei che risultasse positiva, veniva immediatamente processata da un inflessibile tribunale domestico che, nel caso l’avesse giudicata colpevole, avrebbe immediatamente provveduto a metterla a morte.
A questo punto è lecito chiedersi perché i Romani si accanissero tanto contro il consumo di vino da parte delle donne? La risposta è abbastanza intuitiva: essi sapevano che Bacco era molto amico di Venere. L’ebrezza allenta i freni inibitori. E in una società patriarcale che riconosceva alla discendenza legittima un valore fondamentale nella continuità familiare, l’associazione vino-donne è molto pericolosa.
In ogni caso, se l’ubriachezza era severamente proibita alle donne per il timore del tradimento, suscitava forte disapprovazione sociale anche nel caso degli uomini.
Quindi possiamo ben dire che, duemila anni fa come oggi, a valere era sempre lo stesso principio: bere responsabilmente. E proprio su questo tema Plinio chiude la sua trattazione, descrivendo le terribili conseguenze che possono avere gli eccessi, il male fisico e morale cui può condurre l’ubriachezza. Tra gli alcolisti illustri che cita, resta nella memoria il nome di Marco Antonio, il grande condottiero, il compagno di Cleopatra. Era tanto schiavo del vizio del bere che arrivò ad ammettere la propria dipendenza scrivendo un libro sulla propria malattia, consapevole che «l’abitudine a bere ne accresce la voglia».