Articolo realizzato da Prof. Francesco Spagnolli
per gentile concessione della Confraternita della Vite e del Vino di Trento

Già dirigente del Centro Istruzione Formazione di IASMA (Istituto Agrario San Michele all’Adige) – F. MACH

Le definizioni che fornisce il conciso Treccani sui due termini usati nel titolo sono rispettivamente per il primo “nota sommaria scritta per aiutare la memoria”, mentre per il secondo “notizia storica marginale poco nota ma, caratteristica”. Premessa importante per interpretare i concetti di seguito quanto sviluppati. Proprio negli anni in cui nasceva S. Michele (1874), in Trentino si stava sviluppando un particolare interesse per la viticoltura: ma questa che, oltre alla bachicoltura, consentiva una certa commercializzazione del prodotto finito o più spesso semilavorato (il ben noto “graspato”), permettendo così, alle tutt’altro che economicamente floride aziende agricole, una qualche entrata di denaro (corone e/o fiorini), mentre quasi tutto il resto era praticamente destinato all’autoconsumo. Non a caso, attraverso una capillare attività di censimenti catastali vennero individuati i così detti “vitigni predominanti” sia nelle aree ritenute “più vocate”, sia in quelle più distanti dal capoluogo, spesso elevate in quota altimetrica ed anche per questo definite “marginali”.

È ben vero, tuttavia che sulle caratteristiche “varietali” della vitienologia trentina, abbiamo documentazioni alquanto più antiche: Michelangelo Mariani, il ben noto “cronista” del Concilio di Trento (1545 -1653), ma i cui scritti vennero pubblicati più di un secolo dopo, a Venezia nel 1673 (“Trento con il sacro Concilio et altri notabili”), parla esplicitamente di vini “Teroldeghi così detti dall’uva omonima, che se non hanno del piccante… son vini muti che fan parlare”.
Sempre sul parallelismo vitigno – vino, lo stesso autore cita anche il Marzemino, poi assurto alle cronache come “eccellente” per la celebre citazione nel “don Giovanni” di Mozart (in realtà attribuibile al librettista dell’opera, il trevigiano A. DaPonte).
La vite, come succede in non molte altre specie appartenenti alla classe delle dicotiledoni, può riprodursi per via sessuata, quindi attraverso il meccanismo fisiologico fiore – seme, ma anche per via agamica, considerata la relativa facilità di radicazione dei tralci una volta lignificati ed in parte interrati (talea, propaggine, ecc.).
La convivenza di queste due modalità di propagazione è stata fondamentale nella plurimillenaria storia della vitienologia: da una parte ha consentito una enorme diffusione della pianta con tempi relativamente brevi di entrata in produzione (tre – quattro anni) e dall’altra (con i vinaccioli) ha permesso la costituzione di numerosissime varietà (qualcuno parla addirittura di oltre 20.000) principalmente da vino, ma anche da tavola e/o appassimento.
Le prime descrizioni delle singole varietà di vite, per lo più legate ad appellativi poetici, o con toponimi (nomi correlati a quello che era riferito come “luogo di origine”), risalgono all’era romana compresa tra la tarda repubblica e il primo secolo “imperiale”, dove gli autori “ gorgici” (che descrivevano la vita nei campi ed i modi per coltivarli) incominciano ad intravvedere le prime distinzioni tra i vari vitigni e così pure il ruolo fondamentale del “sito” di provenienza del vino (Falerno, Retico, ecc.). Quando Linneo nel suo Sistema naturae (1735) classificò le due specie di vite allora conosciute in Europa, la Vitis vinifera e la Vitis labrusca (d’importazione nordamericana) introducendo la nomenclatura binomia, si limitò ad una breve descrizione (in latino) delle caratteristiche morfologiche di entrambe.
La vera e propria “ampelografia”, cioè la descrizione delle viti secondo precisi criteri morfologici sia specifici, sia varietali prende avvio e si sviluppa nell’Ottocento anche a seguito dei progressi fatti dalla genetica (con le scoperte di Mendel nel 1866), dando vita all’allestimento di numerose collezioni varietali pubbliche (scuole e centri di ricerca) o private (cultori e collezionisti vari).Vale la pena ricordare in proposito che ancora nel corso dei suoi primi anni di direzione a S. Michele (1874-1899) Edmund Mach riuscì a costruire un’importante collezione ampelografica con ben 540 varietà di V. vinifera ed almeno una ventina di ibridi, per lo più “americo-americani” da utilizzare come portainnesti dal momento in cui si sapeva benissimo che la fillossera, dopo aver invaso mezza Europa, stava sistematicamente bussando alle “porte “del Tirolo. “Lo studio delle singole varietà, come del resto l’individuazione e la relativa selezione dei cloni, hanno prioritariamente obiettivi strettamente legati alla produzione: una volta individuato l’obiettivo enologico cioè la tipologia di prodotto che si intende ottenere, occorre studiare il più “equilibrato degli ecosistemi” per massimizzare il risultato ottenibile”. Nel corso dei suoi ormai due secoli di vita, l’ampelografia (moderna) ha subito profonde evoluzioni anche perché le iniziali osservazioni morfologiche (germoglio, foglia, grappolo, acino, tralcio, ecc.) e fisiologiche (epoche di schiusura gemme, fioritura, invaiatura, maturazione) sono state integrate da analisi biochimiche basate sullo studio di metaboliti secondari (polifenoli), sulle dotazioni enzimatiche, e, più moderatamente , sullo studio del DNA (depositario delle informazioni genetiche). E’ stato proprio sulla base di quest’ultimo filone di ricerca che si è arrivati a costruire un vero e proprio “albero genealogico” di molti vitigni attualmente coltivati risalendo ai relativi “parentali”. É stato possibile capire che il “nostro” Rebo non ha come “padre” il Marzemino come scritto da Rigotti bensì del Teroldego. Sempre con le stesse metodologie di indagine, si è scoperto che il Müller – Thurgau non ha come “impollinatore” il Sylvaner verde, bensì il Madeleine Royal. Mai come in questo caso avevano proprio ragione i nostri antenati latini: mater certa, mentre in quanto al padre…

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