Articolo realizzato da Confraternita Sanbajon e dij Noaset
Premessa
È un grande piacere, per noi della Confraternita, condividere con voi un sapere che sa di antico, di “cose” passate che sembrano risalire al Paleolitico, ma che, in realtà, nella prima metà del secolo scorso o, comunque, fino agli anni Settanta, erano piatti consumati abitualmente nelle famiglie.
La società italiana si è evoluta con il boom economico del secondo dopoguerra e molte delle tradizioni, soprattutto culinarie, sono state declassate e messe in un angolo.
Già lo scorso anno abbiamo rivisitato dei piatti della cucina povera e oggi vogliamo proporre altre ricette dei tempi andati (Enofice 2023.05).
Vogliamo riscoprire con voi quei sapori di una volta, quei piatti che facevano di un giorno semplice e faticoso, passato a lavorare sotto il sole estivo o al freddo perché era caduta copiosa la neve, una festa. Quei piatti procuravano gioia anche in chi stava ai fornelli e doveva inventare, con quel poco che aveva, qualcosa di speciale, appetitoso e che facesse brillare gli occhi di gioia.
Quest’ anno il leit motiv della nostra proposta sono le verdure che venivano coltivate negli orti, di cui tutte le abitazioni erano fornite: in particolare, la nostra attenzione si è posata su patate, cardi e porri, senza tuttavia tralasciare le uova e i formaggi.
Come sempre “Il grande libro della Cucina Albese”, edito dalla Famija Albèisa e dall’ Ordine dei Cavalieri del Tartufo e dei Vini d’ Alba, (Alba, Novembre 1996) ci è stato di essenziale aiuto per scoprire storia, particolarità e curiosità dei cibi di cui andremo a parlare.
E allora, via alla festa della cucina dei nostri nonni!
SUBRICH
Dal “Gran Dizionario Piemontese-Italiano” compilato dal Cavaliere Vittorio di Sant’Albino – edito in Torino dalla Società l’Unione Tipografico-Editrice nel 1859 (lodevolmente riprodotto in Edizione Promossa dalla “Famija Turineisa” in “Ristampa Anastatica Autorizzata a tiratura limitata” curata dalla “Bottega d’Erasmo nel 1965”), leggiamo:
Subrich: “(Termine de’ cuochi). Frittella, e comun. al pl. Frittelle. Sorta di fritto di roba battuta, per lo più di erbe, miste talora con carne, incorporata con uova sbattute, e foggiata in pezzi piani e tondi a modo di rotelle. Le frittelle fannosi anche di mele” affettate in tondo”. [Vedi anche Fricēūl].
Volendo scendere ancor più nei dettagli, ci affidiamo al pregevole volume: “La Vera Cucina Casalinga sana, economica e dilicata” di Francesco Chapusot – Torino 1851 – Tipografia Eredi Botta, via della Consolata n° 14 (magistralmente riprodotto in “Stampa Anastatica con un saggio di Domenico Musci e premessa di Renzo Pellati” da Daniela Piazza Editore – Torino, Ottobre 2012), riportando il seguente stralcio tratto dalla premessa al capitolo:
“DELLE FRITTELLE (Subrich): Vivanda economica e buona mai sempre son pure le frittelle, o sèrvinsi da sole, o servino di guarnizione ad altri alimenti. – Economiche inquantochè, per loro mezzo, si usufruttano gli avanzi di legumi, di carnaggi, e di pesce, tritando o pestandoli e, coll’arrota (giunta) di poca salsa, un po’ di farina, riso ed uova, facèndosene cibi di bella mostra, e molto piacenti al palato”. Francesco Chapussot poi precisa che: “Le ricette per le frittelle variano all’infinito; ondechè tratterò io soltanto delle principali, avvertendo sopra ogni cosa, che le sostanze grasse, usate per cuocerle, siano fresche e ben chiarificate, e che si mangino le frittelle appena cotte; imperocchè ogni cibo cotto in grasso diviene stomachevole, se si ritarda a mangiarlo, o se si abbia a rimettere in caldo – ecc. ecc. ecc…………”.
Alla predetta premessa seguono ben 21 ricette che spaziano dall’uso di carni varie, pollame e selvaggina, verdure e semola.
Pertanto, possiamo affermare che i Subrich possono essere “una portata ricca”, se preparati per valorizzare, ad esempio, gli avanzi di un bell’arrosto, o di un altrettanto bel bollito misto. Spesso erano, o possono ancora essere, un “piatto povero” in cui la “roba battuta” era sostanzialmente la patata, arricchita con qualche altro ingrediente per aggiungere un po’ di sostanza e gusto.
E qui non possiamo far a meno di approfondire questo secondo aspetto di “piatto povero” in cui la protagonista è la patata, andando a consultare, com’è ormai nostra abitudine, la monumentale opera “Il grande libro della Cucina Albese”, edito dalla Famija Albèisa e dall’Ordine dei Cavalieri del Tartufo e dei Vini d’Alba. Novembre 1996.
Le informazioni molto esaustive che abbiamo acquisito, per le emozioni che sono riuscite a suscitare, anche in questa occasione sono state riprodotte integralmente, affinché potessero essere al meglio apprezzate dal lettore.
Troviamo ivi conferma che la patata “è originaria dell’America centrale”. In sintesi: “Fu introdotta in Europa intorno al 1570”. “Per il Piemonte, se ne ha una vaga notizia all’inizio del ‘600, senza indicazione di usi culinari”. “La patata viene segnalata sui mercati di Torino nel 1803”. Intorno al primo ‘800 troviamo le prime ricette a base di “Pattate”, come all’epoca erano chiamate. Una di queste ci propone, in alternativa a una preparazione “con buona dose di zucchero”, la seguente variante: “Se voglionsi frittelli da friggersi al burro, è ottima la pasta medesima, da cui però debbesi escludere lo zucchero con il quale si aspergono nel piatto”.
Siamo così arrivati ai “Sobric” (o Subric), le frittelle di patata. Segue il dotto e spiritoso approfondimento che qui desideriamo riportare: “Sul come e sul perché questo termine, oltre a significare da noi frittella, sia l’epiteto per definire una persona ridicola, occorre fare ricorso ai vecchi dizionari francesi, che ci danno la doverosa spiegazione1. Vi è tuttavia un secondo significato, accettato anche dal dizionario piemontese del Ponza, quello di schizzinoso. Questo potrebbe collegarsi ad una forma di avversione per la patata, che si paventava trasmettesse la lebbra.
1: Soubriquet: «…sorte de surnom, epithète burlesque qu’on donne a quelq’un le plus souvent en derision de quelque chose qu’il a dite ou faite mal-a-propos, ou de quelque défaut personel. Les habitants des petites villes sont sujet à se donner»”
Ecco le ricette:
Sobric di patate (versione dolce)
Ricetta riportata da Emilia Montanaro (1956), Alba
Ingredienti: 2 patate di grossezza media; 1 tuorlo d’uovo; Zucchero, Albume; Pangrattato; Olio d’oliva.
Cuocere le patate in acqua bollente per mezz’ora, poi levarle, spellarle, passarle allo schiacciapatate. Dare sospetto di sale ed amalgamare un attimo. Indi allargare appena l’impasto, cospargerlo di zucchero e lasciarlo intiepidire. Aggiungere i tuorli d’uovo, amalgamare con cura.
Prelevare delle cucchiaiate di questo impasto, passarle nel bianco d’uovo, poi avvolgerle nel pangrattato. In una padella friggere in olio, i sobrich, fino a doratura intensa da una parte e dall’altra.
Passare alla carta assorbente, deporre nel piatto di portata e servire.
Sobric di patate (versione sapida)
Ricetta riportata da Emilia Montanaro (1956), Alba
Ingredienti: 2 patate di grossezza media; 1 uovo intero; Pepe; Olio d’oliva; Sale.
Cuocere le patate in acqua bollente per mezz’ora, poi levarle, spellarle, passarle allo schiacciapatate.
Aggiungere le uova intere, impastare dando eventualmente un po’ di pepe, amalgamare con cura. In una padella friggere in olio l’impasto depositato a cucchiaiate con bel garbo, fino a doratura intensa da una parte e dall’altra.
Passare alla carta assorbente, deporre nel piatto, dare un po’ di sale e servire.
I Subrich a le erbe con fondùa trifolà furono degustati nella IV° Torná d’Oteugn ëd Duminica 11 November 1984 e i Subrich con fondua nella X° Torná d’Oteugn ëd Duminica 10 November 1990.
Durante il Convivio 2024 la nostra Confraternita ha proposto in degustazione:
SUBRIC di PATATE:
Ingredienti: 6 patate di montagna, 3 uova, 4 cucchiai di formaggio grattugiato, 1 porro, burro, olio extravergine d’ oliva, sale, pepe.
Cuocere le patate rigorosamente con la buccia, scolarle e quindi sbucciarle. Passarle nello schiacciapatate raccogliendole in una terrina.
Affettare sottilmente il porro facendo tanti piccoli anellini e farlo stufare in padella aggiungendo una noce di burro.
Unire alle patate il porro cotto, le uova intere, il formaggio grattugiato, sale e pepe. Mescolare con cura il tutto.
Fare scaldare in padella un po’ d’ olio e friggere l’impasto sono ad ottenere delle frittelle belle dorate.
Il nostro chef Dino ha unito all’impasto anche un po’ di riso bollito per mantenere la consistenza dei subric.
FRITA’ ROGNOSA
Dal “Gran Dizionario Piemontese-Italiano” già citato, rileviamo:
Frità rognosa: “Frittata in o cogli zoccoli, cioè infusovi presciutto, salame, carne trita o sim. Il Fortiguerri nel suo “Ricciardetto” chiamolla, come da noi, frittata rognosa”.
Difatti, un classico della cucina piemontese è la frittata rognosa, anche detta frità rognosa. Questa variante, corposa e sostanziosa, è essenzialmente a base di uova e salumi avanzati, e sebbene amata tutto l’anno viene spesso inclusa nei menù pasquali. Nella ricetta base, oltre a uova sbattute e pezzetti di salumi (tra cui salame sbriciolato), troviamo formaggio grattugiato, erbe aromatiche, pepe e sale, a cui volendo si possono aggiungere latte e pane raffermo.
Un antipasto, o un secondo se vogliamo. Pochi ingredienti, niente di sofisticato. La “Frittata Rognosa” si chiama così perché esteticamente è bruttina, dato che i pezzetti di salame spuntano qua e là dalla superficie dorata della frittata.
Una ricetta della tradizione piemontese, molto semplice, la cui preparazione richiede poco tempo, da cui otterremo una frittata bruttina, come dicevamo, ma davvero tanto buona.
Una caratteristica spesso comune ai piatti più poveri, basati su “quel poco che c’era”: sono piatti capaci di sorprenderci, trasmettendoci combinazioni di sapori inaspettati.
Per realizzarla, infatti, oltre alle uova, l’ingrediente fondamentale è un salame fresco, poco stagionato. Un salame crudo, o i salamini “d’la douja” (salamini morbidi conservati nel grasso di maiale), o il salame cotto tipico piemontese che andrà benissimo. Il risultato è uno spettacolo, squisito!
E poi è proprio bello pensare che era il pasto comune dei nostri nonni e può essere perfetta anche per il pranzo di Pasqua o da portare con sé per un picnic a Pasquetta.
Servire preferibilmente calda.
Nota di colore:
Sembra che questa semplice ricetta, fosse in auge anche a corte. La frittata rognosa, servita da una contadina inconsapevole, ad un Vittorio Emanuele II in incognito, affamato dopo una battuta di caccia, era stata molto apprezzata dal sovrano che l’aveva indicata fra i suoi piatti preferiti.
Della Frità rognosa la Confraternita propone la ricetta classica, tratta dal volumetto: “Cucina Canavesana” di Maria Luisa (Goteri) – Volume II della Biblioteca della Sentinella – Edizioni Nuova Europa – Ivrea 1987:
Frità Rognosa
Formulazione per 4 persone
Ingredienti: 5 uova, 100-150 gr. di salame cotto o crudo, sbriciolato; olio e burro; una manciata di parmigiano.
Rosolare nei condimenti ben caldi il salame; aggiungere le uova sbattute col parmigiano;
Far ben distribuire con uniformità il salame nelle uova;
Cuocere bene la frittata dalle due parti.
D’origine francese, è una preparazione molto popolare nel Canavese (Nota dell’Autore).
Camillo Brero nel suo “Arsetari dla cusin-a piemontèisa” – “le arsete pì economiose e pì prest fàite (le ricette più parsimoniose/sobrie e più rapide da farsi)” – Ed. Piemonte in bancarella – Torino, ai precedenti ingredienti vi aggiunge; “sale, pepe e noce moscata”.
Per chiudere in bellezza il capitolo: Frità Rognosa, non possiamo far a meno di citare la relativa ricetta riportata sul già menzionato tomo: “Il grande libro della Cucina Albese”, che peraltro si rispecchia nella definizione riportata dal “Gran Dizionario Piemontese-Italiano”, citato in apertura.
Ci sia consentito un benevolo commento: la ricetta che segue è tutt’altro che una ricetta classificabile come “povera” (nota degli scriventi).
Frittata Rognosa (Frità Rognosa)
Ricetta riportata da Virginia Prandi (1960), Cravanzana
Formulazione per 4 persone
Ingredienti: 1 mazzetto rosmarino; 1 sospetto di aglietto; 4 uova intere; 150 gr. di salame cotto; 150 gr. di carne arrostita; mollica di pane intrisa di latte; olio; burro; 1 manciata di parmigiano grattugiato.
Prendere un mazzetto di rosmarino e tritarlo con una punta di aglietto poi farli appena rosolare;
Tritare finemente un po’ di salame cotto, altrettanto di carne arrostita ed un po’ di mollica bagnata nel latte;
A parte sbattere le uova ed unire quanto detto in precedenza ed una manciata di parmigiano grattugiato;
Mettere in padella, cuocere normalmente dando un po’ di sale e a metà cottura girarla con un piatto largo come la padella e rimetterla al fuoco, avendo aggiunto di nuovo un po’ di burro ed olio;
Quindi, cotta, rigirare la frittata e portarla calda in tavola.
Gli Scartari d’la Confraternita ci riferiscono che la Frità, fu degustata la prima volta, in questo caso, la “Frità a le erbe di Bòrgno (vulgo: la frità a le urtije, ovvero: la frittata ai germogli d’ortiche), fu degustata la prima volta nella XVI° Torná ëd Primavera ëd Duminica 14 Avril 1996.
SFORMATO DI CARDI (Ovvero: Flan di Cardi)
Premessa:
Lo sformato, talvolta detto anche flan, è una preparazione alimentare tipica italiana che può essere usata come antipasto o come piatto principale.
Flan è un termine che non è quasi mai citato nei ricettari canonici della cucina Piemontese, sebbene sia abbastanza ricorrente nei menù nostrani.
Il già citato “Gran Dizionario Piemontese-Italiano” ci può venire in soccorso per individuare una corretta relazione tra i due termini. Difatti, rileviamo:
Flan: “(Termine de’ cuochi1). Specie di tartara, fatta con crema, e talora con carni ed altri ingredienti (dal Fran. Flan2).
1: ovvero, in uso corrente (per semplicità?) presso i cuochi (nostrani); “2: Flan” è un termine francese che indica una specie di crostata, sia dolce che salata, mentre in Italia con flan si intende una sorta di sformato o timballo cotto in stampini”.
E così, chiarezza, (ci parrebbe, o almeno ci auguriamo), è fatta.
La maggior parte degli sformati è a base di verdura. Alla verdura lessata, tritata e insaporita (con olio o burro) si aggiungono le uova (talvolta con l’albume montato a neve) e il formaggio. Se piace, un pizzico di noce moscata. Invece delle verdure si può inserire la carne, il prosciutto cotto o altri ingredienti.
Il cardo è una verdura prevalentemente coltivata in Piemonte.
Dal già menzionato tomo: “Il grande libro della Cucina Albese”, apprendiamo che:
“Alla stessa famiglia appartengono cardo e carciofo, accumunati a suo tempo da Plinio in un giudizio tutt’altro che lusinghiero1. Sull’uso alimentare del cardo si hanno scarse notizie; molto noto, fin dai tempi remoti, era invece l’utilizzo dei suoi germogli e dei suoi semi per provocare il caglio del latte nella fabbricazione dei latticini”.
“I cardi prodotti da aree coltivabili anche esigue rendono fino a seimila sesterzi, dal momento che facciamo diventare cibi concupiti dai buongustai quelle che sono stranezze naturali, e ci riduciamo a coltivare le piante che tutti i quadrupedi rifiutano”.
Inoltre, “Il ‘500 lo vede «cotto nel brodo di cappon grasso». Altrove degli stessi cardi si dice: «si mangiano ordinariamente nell’autunno e nell’inuerno fatti teneri e bianchi sotto terra»”.
Infine, “Riguardo alla distinzione tra «gobbi» e «diritti», la cosa dipende unicamente da una variante in fase di coltivazione, che in entrambi i casi non ha influenza sui risultati qualitativi ottenibili”.
Il cardo nella tradizione piemontese rappresenta la verdura per antonomasia, in associazione alla Bagna Caoda.
Ed eccoci finalmente giunti alla proposizione di una ricetta di sformato, nella fattispecie, di cardi gobbi (che più propriamente Piemontese non potrebbe essere), ripresa dal Libro di Cucina: “Il Cucchiaio d’argento 2022”:
Sformato di cardi gobbi
Sfilettate con cura i gobbi, poi tagliateli a pezzi di 4-5 centimetri e lessateli al dente (circa 35-40 minuti) in acqua salata a bollore, sgocciolateli e tenete da parte. In un tegame lasciate fondere il burro e insaporitevi i gobbi per alcuni minuti, poi riducete il calore, aggiungete il latte e portate a cottura, ci vorranno circa 30 minuti. Ritirate, frullate o tritate finemente i gobbi, uniteli alla besciamella, incorporate al composto le uova e il Grana Padano, regolate il sale, amalgamate bene. Versate il composto in uno stampo imburrato e cuocete a bagnomaria in forno caldo a 170° per 35-40 minuti. Ritirate, lasciate riposare 5 minuti e sformate sul piatto da portata. Servite subito.
Gli Scartari d’la Confraternita ci riferiscono che il Flan, fu degustato la prima volta, in questo caso, un Flan ëd verdura con fondua, nella VI° Torná d’Oteugn ëd Duminica 9 November 1986, successivamente un Flan d’oteugn con le trifole fu degustato nella VII° Torná d’Oteugn ëd Duminica 15 November 1987, un Flan ëd ciapin-abò con finansiera fu degustato nella VIII° Torná d’Oteugn ëd Duminica 6 November 1988, un Flan d’ortaje con fondoa e bolé al verd fu degustato nella XII° Torná d’Oteugn ëd Duminica 8 November 1992, e un Flan ëd cossòt con na coulé ëd tomatiche fu degustato nella XVIII° Torná ëd Primavera ëd Duminica 19 Avril 1998.
La Confraternita propone in degustazione:
Sformato di Cardi con Salsa d’Acciughe, ovvero una sorella elegante della più rustica Bagna Caoda.
Ingredienti per quattro persone:
600 g. di cardi, 4 uova, 100 g. parmigiano, burro, panna liquida, sale e pepe.
Mondare i cardi togliendo con molta cura i filamenti, tagliarli a tocchetti, farli cuocere in acqua per 15 minuti.
Scolare i cardi, tritarli finemente con la mezzaluna e passarli in padella con una noce di burro; aggiustare di sale e pepe.
Mettere il trito in una terrina, aggiungere il parmigiano grattugiato e i quattro tuorli, un po’ di panna e mescolare.
Sbattete a neve ferma gli albumi e incorporarli delicatamente, girando dal basso verso l’ alto per non fare “ sedere” gli albumi.
Porre il composto in formine e cuocere a bagno maria nel forno a 180° per trenta minuti.
Il nostro sformato di cardi sarà accompagnato da una salsa composta da acciughe e panna, più delicata della Bagna Calda.
A proposto dei PORRI che saranno serviti in accompagnamento alla ROLATA DI FASSONE
Affidandoci a quanto riportato dal volume “Piemonte: il Territorio, la Cucina e le Tradizioni”, Ed. Boneschi. 2007, apprendiamo che l’origine del porro è molto antica e la sua prima apparizione si può, quasi certamente, localizzare nell’Europa meridionale; nonostante i Romani ne fossero grandi estimatori, lentamente il porro cedette il posto alla cipolla.
Il Piemonte rimane una delle regioni di massimo consumo e produzione di questa liliacea, proseguendo una tradizione già registrata nella seconda metà dell’Ottocento.
L’agronomo Giulio Cappi annota nella prefazione del libro “ Ortaggi e legumi”, edito nel 1870, che “ se ne fa estesa coltivazione in Piemonte”, sottolineando anche il fatto che i porri “pervengono a quel grado di perfezione in generale” soltanto in questa regione.
Molti sostengono che il sapore dei porri sia una via di mezzo fra quello della cipolla e quello dell’aglio: in realtà è molto delicato e, quando viene mescolato con altri cibi, non ne altera il sapore. La sua freschezza si riconosce dalla foglia e dalle radici: mentre la prima non deve essere ingiallita od avvizzita, le piccole radici non devono affatto essere secche.
Cervere, paese vicino a Cherasco, a pochi chilometri da Bra, è paese famoso per le coltivazioni di un porro appartenente alla varietà “ lungo d’inverno”. Il suo sapore è dolce e gradevole, particolarmente digeribile perché contiene pochissima lignina e cellulosa.
Nel corso del Convivio 2024 della nostra Confraternita abbiamo degustato i Porri Gratinati cucinati secondo la seguente ricetta.
Ingredienti: porri lessati, burro, formaggio.
Dopo aver lessato i porri, sistemarli in una teglia da forno e guarnirli con noci di burro e molto formaggio grattugiato.
Passare al forno e fare gratinare.
CARNE DI VITELLO
Rispetto alle relative carni da cucina, si distinguono due tipi di vitello:
Vitello comune, bovino precocemente svezzato e alimentato con foraggi e mangimi
Vitello sanato (o semplicemente “sanato”), vitello maschio castrato alimentato fino al raggiungimento del peso indicato, esclusivamente con latte e, negli ultimi mesi prima della macellazione, latte addizionato con uova
Data la giovane età di macellazione del bovino, la carne di vitello è considerata “bianca”.
La macellazione del Sanato, o vitellone castrato, avveniva/avviene alla fine dello svezzamento, intorno all’età di 8 mesi.
Il Sanato, soprattutto in Piemonte, è il vitellone castrato dal quale deriva il bue grasso, che ha dato tanti celebri piatti della cucina locale, ad iniziare dai bolliti.
Fino alla fine degli anni ’70 del secolo scorso il Sanato era una specialità ricorrente nei piatti della cucina Chivassese.
La Rolada ëd Sanat a la mòda dij vej fu degustata nella I° Torná d’Insediament ëd
Duminica 17 Gené 1982; Ël Spalot ëd Sanat ëd Civass al forn con verdure sernìe fu degustato nella IX° Torná d’Oteugn ëd Duminica 19 November 1989; La Sela ëd Sanat con porsin fu degustata nella XIV° Torná ëd Primavera ëd Duminica 17 Avril 1994; Ël Stinch ëd Sanat al Freisa fu degustato nella XVII° Torná ëd Primavera ëd Duminica 13 Avril 1997.
Durante il nostro Convivio abbiamo, invece, degustato la Rolata di “Fassone”.
Il termine “Fassone”, o “Fassona”, è entrato in uso (e molto spesso in abuso) nel vocabolario commerciale per indicare il bovino di Razza Piemontese. E, per estensione, una carne di elevata qualità (quale è quella di questa Razza).
La Razza Piemontese è una razza bovina autoctona del Piemonte originariamente a triplice attitudine: ovvero, per il lavoro, per il latte e per la carne. Viene utilizzata oggi principalmente per la carne, in particolare per la presenza di una iperplasia muscolare che è il processo biologico che porta alla crescita del volume del muscolo per aumento del numero delle cellule che lo costituiscono, piuttosto che un aumento del volume delle stesse cellule della coscia (detta fassone o doppia coscia, e rappresenta tuttora un elemento caratterizzante del territorio piemontese).
Perché si dice “Fassone”, o “Fassona”?
Il termine deriva dal Francese, infatti in origine e parliamo circa del 1815 il termine Fassona indicava foggia, ovvero fattura, e risale appunto ad un’espressione usata dai commercianti francesi i quali parlavano dei loro vitelli migliori dicendo che erano “de bonne façon”.
La Rolada ëd Vitel dla Fasson, con saladin-a ‘d Castgné e sarsèt fu degustata nella XXI° Torná ëd Primavera ëd Duminica 25 Avril 2001.
IL ‘PLIN’
Per descrivere il significato del nome di questo piccola prelibatezza ed il modo originale del suo servizio mi sono avvalso di una recensione scovata sul Web riguardante un noto ristorante “di tradizione” in quel di Cessole in valle Bormida, ove il ‘plin’ nel tovagliolo da più di settant’anni è il piatto forte. “n.d.s.”
«Un ristorante riassunto in un gesto. O, forse, in un potenziale suono, un’onomatopea, (ovvero, il fenomeno che si produce quando i suoni di una parola descrivono o suggeriscono acusticamente l’oggetto o l’azione che significano). Un locale fondato su storia, tradizione e artigianalità. Ma soprattutto sul “plin”. Che poi sarebbe il nome di quella caramella di pasta fresca, ripiena di carne e verdure, tipica piemontese, che tuttora costituisce l’architrave dell’offerta gastronomica del ristorante».
«I “plin” vengono serviti al tavolo alla maniera contadina, una sorta di purismo minimale che si concentra sul gusto di pasta e farcitura, escludendo qualunque condimento: bolliti, scolati e serviti sul tovagliolo. La stoffa asciuga l’umidità in eccesso meglio rispetto alla ceramica. Il palato non viene condizionato e distratto dai ragù carnei, né dal grasso butirrico aromatizzato alla salvia».
I “plin” così serviti ebbi il piacere di degustarli la prima volta 35 anni fa, proprio in quel ristorante, insieme al carissimo Amico e Confratello Piervanni, complice un altro grande Amico, anche della Confraternita: Mauro Perrone di Valdivilla di Santo Stefano Belbo.
J’Agnolòt dël plin furono degustati nella XVI° Torná ëd Primavera ëd Duminica 14 Avril 1996; nella XX° Torná ëd Primavera ëd Duminica 9 Avril 2000; e nella XXI° Torná ëd Primavera ëd Duminica 25 Avril 2001.
(Non si ha memoria se in una delle precedenti occasioni furono serviti sul tovagliolo – n.d.s.)